punti nascita

I tagli alla sanità iniziano dai tagli ai punti nascita

Il covid ci ha mostrato l’importanza di mantenere efficiente la rete pubblica di assistenza sanitaria per la sicurezza della comunità. L’ultimo decennio per l’Italia è stato invece l’anno dello smantellamento della struttura sanitaria pubblica per ridurre i costi. Le leggi ideate al proposito hanno consentito di tagliare in nome dell’efficientamento e della sicurezza ospedali, reparti, posti letto, prestazioni, personale sanitario, medici, spingendo la popolazione a trovar alternativa nei sempre più rigogliosi centri privati.

L’accordo Stato Regioni del 2010, con il controverso obiettivo di ridurre i tagli cesarei, tracciava una proporzionalità fra numero di parti annui eseguiti nel punto nascita e numero di cesarei e con questo alibi decretava la chiusura di tutti i punti nascita al di sotto dei 500 parti e successivamente dei 1000. Questo modo di agire da teatro di guerra in realtà era un’alibi per procedere alla soppressione del 35% dei punti nascita in Italia, ovvero di tutta la rete periferica che dava assistenza al parto nelle aree interne più difficili, quelle montane. Con l’ordine dichiarato del parto in sicurezza in realtà veniva a meno l’assistenza in loco, rifiutando di considerare come momento delicato già quello precedente al travaglio, lasciando all’avventura dell’elisoccorso e del parto in ambulanza le donne di montagna, ree di essere una minoranza.

Colpire i punti nascita era la punta di diamante di una strategia di smantellamento degli ospedali periferici perché venendo a meno loro, si poteva procedere alla soppressione progressiva dei reparti necessari per legge al loro mantenimento: rianimazione, chirurgia, radiologia, pediatria.

Le lotte delle donne in tutt’Italia costrinse il Ministero della Salute del dicastero Lorenzin a emanare un protocollo di deroga che stabiliva il mantenimento in attività dei punti nascita al di sotto dei 500 parti all’interno di aree orogeografiche difficili. Ma nonostante questo, la Regione Emilia Romagna è riuscita a farsi dare parere negativo dal Comitato Percorso Nascite nazionale, segno evidente di un gioco politico d’intesa che assecondava le intenzioni delle singole regioni.

Fu così che la Regione Emilia Romagna approfittò del parere consultivo ministeriale per emanare un decreto immediato di chiusura, convinta che dopo due mesi di lutto la popolazione avrebbe dimenticato.

La storia ci insegna che la lotta è continuata e a cambiare parere è stato proprio Bonaccini che si è dichiarato pentito della scelta fatta.

Il punto nascita dell’ospedale Sant’Anna di Castelnovo ne’ Monti è stato chiuso il 4 ottobre del 2017, nonostante fosse stato da pochissimi anni completamente ristrutturato, fornito delle più moderne tecnologie, e godesse del rispetto pieno delle dotazioni e degli standard previsti per i punti nascita di primo livello, ad eccezione della guardia h24 di pediatria che era invece di immediata reperibilità.

Questo fatto è l’emblema di un periodo, caratterizzato da scelte politiche disumane e prepotenza amministrativa, periodo che vorremmo venisse superato dalla nuova consapevolezza post covid ma che aspettiamo ancora di vedere nei fatti.

Ora tocca a Bonaccini: se ne uscirà con altre scuse che non gli permettono di agire o si prenderà fino in fondo la responsabilità di mantenere ciò che ha promesso e restituirà il maltolto alle donne ed ai nascituri di montagna?


“L’universalità dell’assistenza sanitaria si misura nei territori disagiati”